Nancy Stark Smith qualche mese fa è mancata. Ho pensato molto a lei da allora, alle volte che ci siamo incontrate nel corso degli anni. Può essere difficile mettere a fuoco i ricordi, si nascondono dietro qualche meandro a volte, ma non è così per Nancy, è facile ritrovare le esperienze con lei.
Alcune perle del suo pensiero rimangono chiare, come la volta che ho partecipato con un grande gruppo al New York Improvisation Festival in Saint Mark's Church e Nancy era una “facilitatrice”. Ricordo che dopo una sessione di lavoro, quella sera siamo usciti insieme a prendere un caffè.
È stato facile parlare con Nancy, come sempre ha dimostrato molta attenzione e curiosità verso l’esperienza e la ricerca condotta dagli altri artisti.
Mi ha dato molte informazioni utili e dettagliate sul duo di contact improvvisation che avevo danzato quel giorno e in cui mi ero quasi fatta male. Mi ha detto: "Sai, puoi sempre dire qualsiasi cosa per comunicare al tuo compagno di danza quello che stai passando nell’momento come ad esempio: "Mi sento un po' insicura quassù".
Spesso si è accorta che mentre si danzava, durante le jam, la gente non comunicava quando si trovava in situazioni pericolose o scomode, e quanto invece sarebbe stato utile farlo.
Era un invito a “essere vocale” molto importante per me, mi autorizzava e incoraggiava a parlare quando serviva anche durante la danza.
Un'altra volta Nancy mi ha ospitato a casa sua a Northampton. Io stavo dirigendo un progetto di performance per un gruppo di studenti della Theater School di Arnhem per poi andare con gli studenti ad eseguire il pezzo al Middlebury College. Nancy è venuta a vederlo e ci siamo divertite a parlare dopo e, come naturale, mi ha dato le sue impressioni sul lavoro.
Le piaceva il movimento puro, la fisicità del movimento, invece di una danza più teatrale o intenzionalmente espressiva. C’era una filosofia poetica nel suo credere che le leggi fisiche del movimento e del corpo fossero di per sé già un evento teatrale, vibrante e vero.
Si trattava di un approccio rassicurante, poiché gettando via la necessità di inventare qualcosa che di per sé non sià già presente all'interno del corpo fisico in movimento dà leggerezza.
Anni dopo, quando invitammo Nancy e Mike qui, a Sesto Fiorentino, ricordo che lei chiese una persona esterna per tradurre il workshop. Ho pensato che forse avrei potuto partecipare al workshop e tradurre man mano che procedeva. Mi disse che non aveva mai avuto in passato l’occasione che i partecipanti traducessero mentre seguivano il workshop, e aggiunse che l'attenzione di una persona si divideva tra fare e tradurre, e che aveva bisogno di una persona che mentre traduceva fosse seduta fuori a osservare.
Ne fui delusa, successivamente però ho capito il punto di vista di Nancy. Con la sua pluriennale esperienza nel formare il pensiero in parola, per lei era molto importante il compito della traduzione, trasporre idee e indicazioni dall'inglese all'italiano, coinvolta a pieno titolo nella selezione e nel filtraggio fluido tra le due lingue. Inoltre, ciò rifletteva la sua dedizione al processo di apprendimento e si concentrava sull'esperienza degli studenti come obiettivo principale. Nancy è stata una grande mentore, con il suo grande cuore, il suo sorriso morbido, la sua volontà di ferro, la mente veloce e lo spirito perspicace.
Charlotte Zerbey
THINKING OF NANCY
Nancy Stark Smith passed away a few months ago. I have thought a lot about her since then, the times we met over the years. It can be difficult to bring memories into focus sometimes, as though they’re hiding behind some lobe, but it’s not so with Nancy, it’s easy to recall experiences with her.
Some pearls of her thought remain clear, like the time I participated with a large group at the New York Improvisation Festival in Saint Mark's Church and Nancy was a "facilitator". I remember that after a work session, that afternoon we went out for coffee together.
It was easy to talk with Nancy, as always, she showed a lot of attention and curiosity towards the experience and the research conducted by other artists.
She gave me a lot of useful and detailed information about a contact improvisation duo I had been dancing that day in which I had almost got injured. She told me: "You know, you can always say anything to tell your dance partner what you are going through in the moment like: "I feel a little insecure up here".
She often noticed that while dancing, during jamming, people didn't communicate when they were in dangerous or uncomfortable situations, and how helpful it would be to do so.
It was an invitation to "be vocal" very important to me, it allowed and encouraged me to speak when needed even during the dance.
Another time Nancy hosted me at her home in Northampton. I was conducting a performance project for a group of students at the Theater School in Arnhem and then went with the students to perform the piece at Middlebury College. Nancy came to see it and we had fun talking afterwards and, of course, she gave me her impressions of the work.
She liked pure movement, the physicality of movement, instead of a more theatrical or intentionally expressive dance. There was a poetic philosophy in her belief that the physical laws of movement and the body were in themselves already a theatrical, vibrant and true event.
It was a reassuring approach, because throwing away the need to invent something that in itself is not already present within the physical body in motion gives lightness.
Years later, when we invited Nancy and Mike here, in Sesto Fiorentino, I remember that she asked to have an external person to translate the workshop. I thought maybe I could attend the workshop and translate as it progressed. She told me that she had never in the past had any luck for a participant to translate while following a workshop, and added that a person's attention was divided between doing and translating, and that she needed the person who was translating to sit outside and observe.
I was disappointed, but later I understood Nancy's point of view. With her many years of experience in forming the thought in question, the task of translating, transposing ideas and directions from English into Italian was very important to her, and for the translator to be fully involved in the selection and fluid filtering between the two languages. In addition, this reflected her dedication to the learning process which focused on the students' experience as the main objective.
Nancy was a great mentor, with her big heart, soft smile, iron will, quick mind and discerning spirit.
Questa è un'intervista che ho fatto in pubblico con Nancy Stark Smith e Mike Vargas, nel dicembre 2005, quando sono stati invitati a tenere un workshop di Contact Improvisation e hanno presentato un duo di improvvisazione al Teatro Studio di Scandicci: Mike al pianoforte, Nancy a danzare.
INTERVISTA A NANCY
Questa è un'intervista che ho fatto in pubblico con Nancy Stark Smith e Mike Vargas, nel dicembre 2005, quando sono stati invitati a tenere un workshop di Contact Improvisation e hanno presentato un duo di improvvisazione al Teatro Studio di Scandicci: Mike al pianoforte, Nancy a danzare.
Charlotte Zerbey – Nancy, puoi parlarci di quando hai cominciato a danzare e dello sviluppo del tuo lavoro attraverso la Contact Improvisation?
Nancy Stark Smith – Il mio amore per il movimento nasce da quando ero bambina e si è poi sviluppato attraverso lo sport e la ginnastica. Mentre mi esercitavo come atleta, allo stesso tempo la scrittura e il linguaggio sono sempre stati un aspetto piacevole dei miei interessi, prima ancora che diventassero un lavoro. A 19 anni andai al College e entrai in contatto con la Danza Moderna. Erano i primi anni 70, quando a New York c’era appena stata una grande rivoluzione nella danza che si stava diffondendo nel paese e stava arrivando anche nei College. In occasione di una residenza artistica di un mese, Twyla Tharp venne con la sua compagnia nel Vermont al mio College. Faceva un lavoro che incorporava diversi tipi di movimento nella sua coreografia: tecnica, sport, movimento quotidiano… ma la sua era una coreografia molto precisa. Poi ho partecipato ad un lavoro di residenza con la Grand Union, un gruppo di improvvisazione di danza e teatro che includeva Steve Paxton, Yvonne Rainer, Trisha Brown e altri artisti; questa esperienza mi ha cambiato per sempre. Ho studiato con tutti loro e ho partecipato ai loro lavori. Quello è stato il mio primo vero anno di lavoro sull’improvvisazione: Steve Paxton e gli altri stavano lavorando in modi diversi, e dopo sei mesi cominciò a svilupparsi la Contact Improvisation, e Steve mi invitò a restare e partecipare a un'altra residenza. Da questo progetto nacque una lunga ricerca, e mai avrei pensato che sarebbe durata così a lungo.
C. Z. – Parlaci degli anni prima della nascita della rivista Contact Quarterly, e di come hai sviluppato il tuo lavoro sulla danza e sulla scrittura.
N. S. S. – I miei primi spettacoli sono del 1972, quando ero al secondo anno di università. Ho continuato a fare tournée durante le pause di studio per qualche anno e dopo la laurea decisi di dedicarmi alla scrittura. Quell’estate andai al Naropa Institute, in Colorado, a seguire un corso dove si alternavano come insegnanti molti scrittori. Là incontrai una poetessa, Diane di Prima, che mi invitò in California per farle da assistente. La conoscete? In effetti questo si ricollega alla rivista. Dunque andai in California per farle da assistente, curare la redazione dei suoi scritti e assisterla nei laboratori. Alcune delle persone con le quali vivevo mi chiesero di insegnare loro questo tipo di danza che dicevo di conoscere. Non avevo intenzione di insegnarla, ma mi chiesero: “Ci mostri come si fa questa Contact Improvisation?”. Così abbiamo trovato uno spazio e ho cominciato a tenere le mie prime lezioni pubbliche. Le persone che frequentavano erano poeti ma anche gente comune. Questo è stato l’inizio dell’invenzione del vocabolario e degli esercizi di Contact per soddisfare le esigenze di questo pubblico.
Siamo nel 1975 e io sono in California ospite di una comune gay, quando Steve Paxton mi chiama chiedendomi di andare in tournée con lui per mostrare la C. I. (Contact Improvisation) nel Nord Ovest. Casualm ente avevo anche incontrato due persone che avevano preso parte ai primi spettacoli di C. I. : Nita Little e Curt Sidall, che vivevano in California. Allora chiesi a Steve: “Facciamo una reunion?”. Fu così che facemmo degli spettacoli in California di C. I., che si ripetevano ogni anno, con questo gruppo chiamato Reunion. Quando ci si esibiva in gruppo c’erano delle persone che, avendo già visto i nostri spettacoli, iniziava a praticare la C. I. e alcuni di loro, nel praticarla, si facevano male, e noi ci chiedevamo che cosa nella nostra preparazione ci permetteva di evitarlo. Allora prendemmo in considerazione l’idea di mettere un copyright sul nome C. I. per poter certificare gli insegnanti e avevamo anche intenzione di redigere i documenti necessari. Ma poi decidemmo di non farlo, poiché questo avrebbe potuto tenere lontano le persone che noi invece volevamo attirare e avvicinare alla C.I. e fu deciso di creare una newsletter invece del copyright, e questo è stato l’inizio della rivista.
C. Z. – Le partiture sono una parte interessante del lavoro di improvvisazione. Puoi dirci qualcosa su come le partiture sono sviluppate per l’improvvisazione e per la C. I.?
N. S. S. – Penso che in qualche modo una partitura possa essere vista come l’insieme delle regole di un gioco, qualcosa che fornisce un senso di definizione e limite. Credo che sia difficile per le persone che praticano la C. I. rendersi conto che questa è stata elaborata da un artista chiamato Steve Paxton. Sembra soltanto una forma di movimento.
Negli ultimi trenta, quarant’anni molti artisti hanno esplorato il movimento nella danza e la creazione di composizioni istantanee e ci sono molti metodi che possono essere chiamati “partiture”. Ricordo un’improvvisazione molto semplice al College: fuori nevicava, l’insegnante spense le luci e noi dovevamo improvvisare basandoci sulla neve. Non so se possa essere definita una partitura. Forse sì. Alcune sono molto complesse e dettagliate, sia che implichino elementi di tempo o certe qualità, come alcune caratteristiche di movimento, tipi di relazioni, immagini dalle quali partire. Alcune improvvisazioni sono molto aperte, con pochissimi elementi predeterminati, mentre altre sono estremamente strutturate con pochi ma significativi elementi di libertà all’interno. La libertà di costruire la logica dell’improvvisazione è un fattore molto interessante in questi anni di lavoro sull’improvvisazione. Per alcuni, come Katie Duck o altri che da anni vi lavorano, è un approccio al movimento e alla composizione. Non è solo una struttura.
C. Z. – Mike puoi parlarci della C. I. e di come hai visto svilupparsi negli anni il lavoro di Nancy?
Mike Vargas – Da sette anni sono stato direttamente coinvolto nel lavoro di Nancy, ma ho anche seguito tanti dibattiti e seminari nei quali lei ha discusso del suo lavoro negli ultimi venticinque anni. La mia prospettiva è quella di chi collabora con lei alla realizzazione dei laboratori e anche alla composizione delle musiche di scena; come musicista ho comunque lavorato con l’improvvisazione in musica e ho anche composto per altri tipi di danza.
Il lavoro sull’improvvisazione che in questo momento ci interessa non è proprio C. I., anche se comunque ne è il suo presupposto. Penso che il lavoro di Steve Paxton fosse basato sulla ricerca e che quello di Nancy ne sia fortemente influenzato. Chi la pratica deve essere molto concentrato e curioso ma non deve curarsi di come appare, dell’aspetto del proprio corpo. Ecco la connessione tra lo spirito della C. I. e quello degli altri tipi di improvvisazione alle quali io e Nancy stiamo lavorando. Credo che questo sia un cambiamento rivoluzionario nei confronti di tutta la danza: non essere preoccupati di come si appare, del proprio aspetto.
N. S. S. – Ecco il problema attuale: non occuparsi tanto di come si appare, ma di cosa viene comunicato se qualcuno ci vede dal vivo. In questo senso, come ha detto Mike, è vero che lo spirito di ricerca è proprio nel mio sangue. C’è sempre un aspetto nuovo, qualcosa di nuovo che non capisco e che mi spinge a muovermi. Per esempio come organizzare il corpo, una vera e propria preparazione alla danza, in modo da ri-orientare i movimenti immaginandone un uso più adeguato alla conformazione anatomica. Usare l’immaginazione per educare il corpo e motivarlo a muoversi. Attraverso la pratica della C. I. mi sono interessata al cambiamento di stato, sia di stato d’animo che dello stato del mio corpo in relazione agli elementi: acqua, terra, fuoco, aria. Tutta la mia vita e la mia esperienza possono essere viste come una pratica spirituale e penso che l’inizio della mia esperienza con la C. I., e con Steve Paxton, sia legato alla meditazione sul corpo e sulle sensazioni che ho appreso da lui. Un’altra cosa che vorrei puntualizzare è sul mio primo approccio alla danza, è qualcosa che ho appreso da Twyla Tharp, ovvero: la fiscalità che amavo nello sport e la poesia che potevano coesistere in un unico linguaggio. Lo studio di cosa siano l’arte e l’ispirazione mi interessa ancora molto.
M. V. – Vorrei ricollegarmi all’idea della ricerca. Le persone che fanno ricerca non solo cercano risposte ma amano muoversi tra ciò che è sconosciuto per trovare altre domande; non appena ne risolvono una, sono alla ricerca di un nuovo mistero: questo è lo spirito di ricerca.
Questo spirito è centrale nella C. I., lo stesso che faceva dire a John Cage che l’arte deve imitare la natura nei suoi modi di operare. Steve Paxton era affascinato dalle forze fisiche in relazione al corpo umano e questo era dovuto alla curiosità su come funziona la natura. Molta dell’arte del ventesimo secolo, molti lavori che sono stati definiti concettuali, non sono altro che il frutto di uno spostamento del punto di vista dalla storia dell’umanità. Invece di dedicarsi ai miti o alle vicende umane, ora questa danza si occuperà della forza di gravità. È stato molto piacevole scoprire un mondo dove le persone facevano ricerca con il proprio corpo ascoltando la realtà in modo diverso. Ho sempre cercato di realizzare una musica diversa, che non fosse legata alla storia umana; osservando il fluttuare delle foglie di un albero si può prendere spunto per un brano. È un tipo di arte contemplativa che richiede osservazione, creatività e concentrazione.
Domanda dal pubblico – Non credo che nel passato le persone non osservassero la natura, ad esempio la tecnica di certe danze Indiane era molto legata all’osservazione della natura, ma il lavoro si traduceva poi nella creazione di miti.
M. V. – È vero, quello a cui mi riferivo sull’imitazione della natura viene dall’India, è un’idea antichissima che Cage ci ha ricordato. In fondo nulla è cambiato, alle persone piace danzare e fare musica, ed è quello che noi facciamo. Si rinnova naturalmente.
N. S. S. – Una delle sezioni principali della performance che porteremo in scena è qualcosa che abbiamo elaborato di recente e che chiamiamo “forme coesistenti”. Una delle strutture di improvvisazione che stavo usando per un assolo andava molto bene insieme a un’improvvisazione di Mike. Ognuna era coerente e indipendente, ma mettendole accanto sono risultate in una relazione inaspettata; ed è così che l’abbiamo formata. Abbiamo sviluppato una struttura di improvvisazione, una composizione che contiene circa quattro o cinque sezioni diverse.
Domanda dal pubblico – Puoi parlarci di come hai maturato la capacità di trasmettere il tuo processo educativo, così come si è evoluto il tuo rapporto con la C. I. e la pratica dell’improvvisazione? Perché sicuramente ci sarà stata un’evoluzione anche in questo aspetto.
N. S. S. – Mi sono accorta che mi viene molto naturale condividere ciò che mi piace. Per quanto riguarda la C. I. ho fatto come la maggior parte delle persone: all’inizio si insegna quello che si è appena imparato e poi, più a lungo fai pratica e più riesci a vedere in dettaglio e a capire. All’inizio l’insegnamento è generico, ma poi diviene più specifico. C’erano delle persone che non erano in grado di fare quello che proponevo e allora mi sono dovuta inventare dei modi per coinvolgerli ugualmente nel lavoro. E così l’insegnamento della C. I., grazie alla decisione di non certificare gli insegnanti, è divenuto un processo estremamente creativo, dove tutti gli insegnanti sono incoraggiati a fare del loro meglio per trasmettere il lavoro. Negli ultimi 30 anni è stata creata una quantità tale di materiale per insegnare, esercizi, partiture, modi di strutturare le jam session che è già di per sé un fenomeno all’interno del mondo della danza di improvvisazione.
Io spesso comincio proprio dagli ostacoli. La cosa principale è arrivare a capire cosa è veramente importante per me, per poi trovare un modo per comunicarlo alle persone che incontro; per questo preferisco non tenere delle masterclass brevi e con molte persone. È la specifica relazione con le persone che fa partire la creazione e richiama alla memoria, oppure mi porta a elaborare del materiale nuovo, perché ho talmente tanto materiale “tradizionale” al momento che devo sforzarmi per continuare a trovarne di nuovo. Naturalmente per le persone è molto importante questo materiale tradizionale, ma a volte non porta nella direzione che vorrei.
C. Z. – Hai parlato, in precedenti nostri colloqui, dell’idea di un tipo alternativo di ambiente performativo per condividere con il pubblico il tuo lavoro. Siete arrivati a definire ambienti più interessanti e adeguati sia per il vostro lavoro d’insieme, sia per quello individuale?
M. V. – Ho continuato a riflettere su questo argomento: la musica che faccio al momento cerca volutamente di attraversare in entrambe le direzioni il confine che sta tra la musica “colta” e l’altra musica (quella di intrattenimento, popolare o folk). Un altro fattore di enorme importanza che abbiamo affrontato ultimamente con Nancy è che molti dei paradigmi che vengono attualmente proposti dall’arte contemporanea richiedono una partecipazione più attiva e aperta da parte del pubblico. Questa componente concettuale fatica ancora ad essere compresa. Se una parte dell’impatto dell’arte proviene dalla differenza tra cosa è, e cosa ci si aspetta che sia, allora noi dobbiamo arrivare a conoscere molto bene che cosa ci si aspetta dall’arte in ogni situazione specifica e da qualsiasi comunità essa sia percepita. Questo significa che dobbiamo valutare le aspettative di un pubblico e quali punti di riferimento comuni l’artista può condividere con il pubblico. Una volta che ci siamo chiariti su questo, la scelta di come presentare la propria arte diventa estremamente importante, penso sia questo a essere percepito come l’attitudine dell’artista. Cercare di capire come "delimitare" l’evento artistico e in quali circostanze condividerlo, aiuta il pubblico a capire meglio come avvicinarsi al proprio ruolo creativo nel processo artistico. Se le persone si aspettano un certo tipo di arte o intrattenimento, e vengono disorientate da qualcosa di fondamentalmente diverso o troppo insolito, prima che si rendano conto del loro stesso ruolo, lo spettacolo rischia di essere già finito.
INTERVIEW WITH NANCY
Here under is an interview I did of Nancy Stark Smith and Mike Vargas in December 2005, when we invited them to give a Contact Improvisation workshop and present an improvisation duo at Teatro Studio di Scandicci; Mike on the piano and Nancy dancing.
Charlotte Zerbey –Nancy would you speak about when you started dancing and your development through Contact Improvisation?
Nancy Stark Smith – My love of movement started from childhood and developed through sports and gymnastics. As I continued as an athlete, all the while, writing and language has always been a big part of my pleasure and my work, you know, even before it was my work. So when I was 19 and went to college, I was brought into contact with Modern Dance. This was in the early 70’s and in New York there had been this big revolution in dance and it was beginning to spread through the country and even coming to the colleges.
And during a one month’s guest artists’ residencies at my college, when I was a student, Twyla Tharp came to Vermont with her company to my school. The work she was doing incorporated different kinds of movement in her production, into her choreography: technical dance, sports, pedestrian movement… But it was a very precise choreography. Then, I participated in a residency with the Grand Union, a dance theater, improvisation group, including Steve Paxton and some of the artists, Yvonne Rainer, Trisha Brown…, I was changed for ever. I studied with all of them, I was in their pieces, and I was changed forever.
That point actually began to be my first year of improvisational work: they were working with improvisation in different ways, Steve Paxton and the others, and a half a year later was the initiation of the work of C.I. and Steve invited me to participate in another of his residency’s. So that was a project and it began a long investigation, of which, I certainly didn’t think would last this long.
C. Z. – Would you talk about the years before Contact Quarterly magazine started, and how you brought together your dancing and writing?
N. S. S. – The first performances were in 1972, in my second year of four at the university. We continued to perform and tour during my breaks in school for the next few years and when I graduated I decided to focus more on the writing. I went to Naropa Institute that summer for a several months’ in Naropa, Colorado, in a program that had a lot of writers that were teaching. I met a poet there, Diane Di Prima, who invited me to California to apprentice her. Do you know her? Actually this connects to the magazine. So I moved to CA to apprentice her, to transcribe her journals, and help her with her workshops. Some of the people I was living with, asked me if I would teach this kind of dancing that I had been telling them about. I wasn’t planning to teach it, but they said “would you show us how to do this C.I.?” So we found a studio and I started teaching my first public classes, and the people coming were poets and just regular CA folk. This was the beginning of inventing vocabulary and exercises to suit this population.
So it’s 1975, I’m in CA living in a commune of gay men, and Steve Paxton called me and asked me to tour with him to show C.I. in the North West. I also accidentally ran into a couple of people who were in the original C.I. performances: Nita Little, and Curt Sidall, who were living in CA. So I said to steve “should we have a reunion?” and we made performances in CA, and in fact performed C.I. every year in a group called Reunion. So when this group met together: we had heard stories of people who saw our performances a year before: we did a tour of CA and people saw the performances and they started to practice on their own. Some of them were getting injured so we started to wonder what is in our preparation that is keeping us safe. We considered copyrighting and trademarking the name C.I. to certify people to teach if we knew them, and at this first reunion gathering we were gonna draw these papers, legal papers, and we decided we didn’t want to legalize this copyright and to keep people away, but instead to bring them in, if they were interested. We decided to create a news letter instead of copyrighting. This was the beginning of the magazine.
C. Z. – Scores are an interesting part in improvisational work. Can you talk a little bit of how scores are developed for improvisation and C. I.?
N. S. S. – In a way, I guess, you could say that a score is like a game plan, like the rules of a game and it gives a sense of definition or limits. I think it’s somewhat harder for people who practice C.I. to realize that this was a proposition by one artist named SP. It just seems like a movement form.
But over the last 30 or 40 years many artists have been exploring movement in dance and creation of composition improvisationally and there were many methods for that, and you could call them scores, like I’m remembering a very simple improvisation when I was in college, it was snowing outside and the teacher turned the lights off, and we were supposed to improvise based on snow. I don’t know if you’d call that a score. Maybe it is. And some scores are very complex and detailed, whether they determine time elements, qualities, like characteristics of movement, kinds of relationships, images that you’re working from. Some improvisations are extremely open with very little determined before and some of them are very structured with very little, but significant freedom within them. The freedom to construct the logic of improvisation is a very interesting factor in all of the years of improvisation. In some cases like with Katie Duck or others who’ve been working a long time, it’s an approach to movement and to composition. It’s not just a structure.
C. Z. – Mike would you talk a little bit about C.I., and how you’ve seen the work that Nancy’s done over the years develop?
Mike Vargas – Well, I’ve only been exposed to Nancy’s work for about 7 years, but I’ve also been exposed to a lot of these kinds of seminars and discussions where she’s discussed the 25 years before. I have the perspective of collaborating with her as a partner in devising the workshops themselves, now, and composing work for the stage together; I’m, however coming from a life of improvising in music and of making music for dance of various kinds. The improvisational work that Nancy and I are interested is not C.I., but is related to the proposition of C.I. I think that Steve Paxton’s composition was based in research and Nancy’s work is strongly influenced by it. It requires the participants to be focused and curious and not so interested in what it looks like, what the body looks like. There’s a connection between the spirit of C.I. and the spirit of the other kinds of improvisation that Nancy and I are working on. I think that it’s a very revolutionary break with most dance of the whole world to not be worried what it looks like.
N. S. S. – This is one of the questions lately: not so much what does it look like, but what is communicated, if someone is seeing it or in the presence of it. So the spirit of research that Mike mentioned I think is really true, it’s in my blood. There’s always a new question, a new something that I don’t understand, that motivates me to keep me working. For example, how you organize your body, which could be considered part of the preparation for dancing so you could repattern your movement by imagining it in proper use of the anatomy. The whole use of imagery at all to educate the body and to motivate the body to move. From the practice of C.I. I became interested in changing states, states of mind and states of body and in connection with the elements: water, earth, fire, air, either. Inside my own life and my own practice, everything is kind of a spiritual practice, and I feel like the beginning of doing C.I. with Steve Paxton was a meditation on the body and on the sensation that I learned from him. I also wanted to say, about my confrontation with dance the first time, was that I realized through Twyla Tharp, that the physicality that I loved in sports, and poetry that I loved, the languages could exist in the same form. The study of art and inspiration and what art is about is of interest to me.
M. V. – I would like to relate to the research idea, and say that people that do research not only like to find answers, but also they like to live in the mystery to find questions so as soon as you answer these questions, you’re looking for the next mystery, that’s the spirit of research, that’s part of it, that’s I think one of the things we share over the horizon, and I think, relating to C.I. and maybe Steve Paxton, and then maybe John Cage said often that he thought art should imitate nature in her manner of operation and I think there’s something about Steve Paxton for example being fascinated with the physical forces, with the body itself, that might have been rooted in the curiosity about how nature works. A lot of art I think from mid 20th century on, lots of things that were called conceptual were actually simply a turning of the focus away from the human story, like making dance is about this myth, or making dance is about harvesting corn. Now this dance is gonna be about gravity. I found such delight in finding a world where people are doing research with their bodies and basically listening in a new way to reality. I had already been working very hard to make music that was also organized in a new way, that again was not as involved with the human story anymore, maybe you look at the leaves of a tree and you see how they flutter and this shows you how to make a piece of music, it’s a kind of art that is contemplative and requires observation, and requires creativity and concentration.
Question from audience – I think that it’s not that in the past people didn’t look at nature, all the ancient art, also Indian dance, learn the technique, how to dance, by looking at nature, but were then translated into different myths.
M. V. – It’s true, in fact what I’m saying about imitating nature is from India, it’s a very old idea that cage reminded us of. I think you can say nothing has changed. People like to dance and people like to make music, and that’s what we are doing. It renews itself.
N. S. S. – One of the main sections of this piece that we’re gonna be doing is a what we call “co-existing forms”, that we found over time. One of the improvisational structures I was using for solo work went together very nicely with the solo structure, a structured improvisation that Mike does. Each one was coherent and independent but by putting them next to one another they were in unexpected relationship so that was one way we formed it. We evolved an improvisational structure, a composition that contains about 4 or 5 different sections.
Question from audience – Could you speak about the how you matured your process and capacity to transmit, as you did with the evolution of C. I. and improvisation practice, your educative process, because there must have been an evolution of this?
N. S. S. – It’s a very natural thing for me I realize, to want to share something that I like. In terms of C.I., I did what most people do: they teach what they learn first, and the longer you stay with something, the more you see; more detailed, the more you understand. There were people who couldn’t do what I was proposing so I had to invent other ways to them in the work, so the teaching of C.I., because of that decision of not to certify teachers, has been an extremely creative environment, where all the people who teach C.I. are encouraged to do the best they can and to transmit that work. In the last 30 years a tremendous amount of teaching material has been created, principles, exercises, scores, ways of structuring jams, which is in itself a phenomenon that came with C.I. I think in terms of the dance improvisation world.
It’s often where there are obstacles that I began. What’s important to me is to understand what’s important to me, and then I have to find a way to communicate it, try, practice, desire to communicate, and to connect with the real people that I’m meeting, I prefer not to teach a master class, short, with lots of people. I feel it’s the relationship with the people that starts to create and call out from memory or from making the material new, even though there are lots of traditions that I have with myself, that I have to struggle to continue to create new material, because there’s so much old material, and to feel that the material is relevant to people, and if it’s still going where I want to go.
C. Z. – In our talk earlier, you touched upon the idea of an alternative sort of public container/platform to share your work. Have you come closer to some conclusions about more interesting and adapted platforms for your particular work together and or separately?
M. V. – I have continued to feel in my own reflections on this kind of topic that the music I'm making is consciously straddling both sides of the "fourth wall" to use one way of speaking, and in fact is also moving back and forth frequently across the membrane that lies between "art-music” and other music (we could call this entertainment, or popular, or folk, etc.). The other huge factor, Nancy and I have actually touched on lately is remembering that in fact a lot of the paradigms (including ours) being proposed through art these days more or less requires a more active and open-minded participation from the audience, and this conceptual component is still very slow to catch-on. If some of the impact of the art comes from the difference between what it does, as compared to what we expect it to do, then we have to know pretty well what art is expected to do at any given time, in whatever community it is being shared. That means we must factor-in, the expectations of an audience, and we must factor-in what kinds of common points of reference the artist shares with the audience/community. Once we have a pretty clear idea about that, the choice of how to present the art in the first place becomes very important, and that ends up being felt as the "attitude" of the art/artist, I think.
Figuring out how to "frame" the art event, and under what circumstances to share it, both end up also making it easier for the audiences to understand how to approach their own creative roles in the process. If they're coming in expecting a certain kind of "art" or "entertainment", and they are surprised and confused by something fundamentally different or too unfamiliar, by the time they figure out what's expected of them, the show might be almost over.